Agostino

I bimbi non possono morire

 

Un bambino. Questo era Giancarlo Guidetti.

Del bambino aveva l’animo semplice. A dispetto della professione medica, per altro esercitata a competentissimo livello. A dispetto della famiglia, magnifica, moglie e due figlie, una più intelligente e capace dell’altra. A dispetto della cultura, di tutto rispetto, nutrita da continue e svariate letture. Un bambino. L’animo di un bambino. Non nel senso negativo del termine, no. Piuttosto, nel senso evangelico. Nel senso del “se non diventerete come bambini…” (Mt 18,4).

Del bambino Giancarlo aveva l’occhio limpido, lo sguardo trasparente, la semplicità disarmante.

Del bambino aveva l’animo indifeso. Di chi coltiva l’amicizia senza riserve. A dispetto del carattere taciturno, talora scontroso. Come quello di un bambino che non ci sta a concedersi con piena fiducia per poi sentirsi incompreso. 
Per questo era così capace, come medico. Perchè sapeva guardare il malato con l’occhio del bambino. E ascoltarlo con l’apertura di cuore del bambino. Senza filtri. Da persona a persona. Con lo sguardo penetrante e il leggero tocco di mano. Con una parola amica, spesso sottovoce. E sapeva addentrarsi nella sofferenza. Quella vera, quella del cuore prima che della carne. E qui agganciare le competenze mediche. Lo sanno i tanti che hanno bussato alla sua porta di casa, prima che all’ambulatorio o al reparto d’ospedale. Che da lui hanno avuto diagnosi precise, esatte, molto prima e spesso senza le complicate analisi di laboratorio… 
Ne liquidava la gratitudine con una parola schiva, talora sgarbata. Non per malanimo, ma per eccesso di candore, con l’animo di chi, con una scrollata di spalle, si schermisce dei ringraziamenti. E si stupisce che si porti così aperta riconoscenza. Pronto sempre a riaprire porta, cuore e competenze. Chi non lo conosceva ne è rimasto sbigottito, il giorno del funerale, la chiesa piena non solo di familiari e di amici, ma di innumerevoli sconosciuti che, nella malattia, da lui avevano avuto il conforto di un’indicazione sicura, preziosa.

Del bambino aveva lo spirito innocente. Quello libero da ogni calcolo, da ogni compromesso, da ogni convenzione. E che scattava, con espressioni anche dure, se – in ciò che gli premeva – si sentiva non dico tradito, ma anche solo incompreso. Pronto, poi, a ricredersi, a riconoscersi in errore, a macerarsi nel rimorso, a chiedere scusa alle persone a torto offese. Come un bambino che non sa coltivare la discordia e chiede uno sguardo di perdono e di amicizia.

Carattere del tutto riservato, amava la solitudine della sua camera, in compagnia dei libri, della musica, del computer. Lettore instancabile, negli ultimi anni s’era dato a vaste letture di storia, di politica, di filosofia, di religione… E ne ragionava con gusto, fra sé prima che con gli altri. Capace, nella conversazione, di lampi d’insospettata profondità. Segno di un lungo, meditato e appassionato pensiero. 
     In fatto di religione, era un autentico credente. Nel senso di una fede fatta di affidamento pieno a un Dio di cui fidarsi: un Dio che si fa uomo per noi, che accetta la passione e la croce per noi. E che risorge, per la nostra salvezza. Volle rileggere il vangelo in greco. Certo, anche per la curiosità della riscoperta di una lingua ormai perduta, dagli anni lontani del classico. Ma soprattutto per il gusto di riandare all’origine, all’essenziale, senza filtri neppure linguistici. E ritrovare il Cristo dell’annuncio apostolico, quello dei giorni della Pentecoste. E parlarne con gli occhi brillanti e il sorriso incantato: senza neppure l’ombra di quei pudori che oggi impediscono anche ai credenti di parlare apertamente di Cristo e del vangelo. “La vita eterna sarà una meraviglia”, mi disse una sera che non me l’aspettavo. “Cristo è venuto per questo. E se sappiamo affidarci a Lui, nulla potrà impedirgli di salvarci”.

* * *

Poi c’era il Coro Monte Cusna. Era parte essenziale della sua vita. C’era entrato fra i primi, a 20 anni, spinto da una passione totale, invincibile, per il canto popolare e di montagna. Quello dei dischi della Sat, delle quattro voci virili “a cappella”, per intenderci. Timbro da basso naturale, aveva un’insospettata ampiezza di voce, dalle risonanze più gravi ai falsetti più leggeri. Era il suo gioco (nel senso etimologico del “gettare” oltre), la sua “dis-trazione” (nel senso del “tirare via da”). Davvero il canto lo “gettava”, lo “trascinava fuori da”: da sè, dal lavoro, dalle ansie, dagli impegni… Era, in questo senso, vera liberazione. Come quella di un bimbo, appunto pienamente immerso nel suo gioco.

Lo stesso era per l’amicizia. Figurarsi, poi, per gli amici del coro. Per i quali aveva una dedizione totale. Fatta anche di lunghi silenzi. Come pure di sfuriate memorabili, quando – a torto o a ragione – vedeva qualcosa incrinarsi. Pronto poi a ricredersi e a riparare. 
Nel cantare in coro non sopportava nè sciatterie nè pressapochismi. Tanto da non esitare, in un momento di difficoltà del gruppo, ad assumere – lui, totalmente digiuno di tecnica musicale e canora – la direzione del coro. Pronto a vincere la naturale ritrosia, a mettersi in gioco in prima persona. A farsi autodidatta di una conduzione corale tutta da apprendere. E a fare, del coro, il suo laboratorio vocale.

Era il 1974. Furono anni – specialmente i primi dieci – di pura passione. In tutti i sensi: dell’esaltazione e della sofferenza. Capace di richiedere – di un canto, di una strofa, di un versetto – ripetizioni senza fine, alla ricerca di una perfezione, di un’armonia, di un effetto canoro cui, in assenza di mappe sicure, solo un cammino in difficile salita, fatto di ostacoli improvvisi, di tentativi anche vani e di ripetute deviazioni, poteva portare. Caparbio, in questo, come un bimbo testardo. Che gioca per istinto e vuole vincere ad ogni costo.

E vinse, Giancarlo. Non tanto per i successi ottenuti. Anche questi, ovviamente. Come avvenne a Genova, col primo posto nel concorso nazionale del 1984. E come accadde ancora altre volte, in tutti questi anni. Ma, più ancora, per la certezza di un traguardo raggiunto, per quanto intermedio. E per il vivo compiacimento delle guide che aveva scelto, ancorchè da lontano. Quella, ad esempio, di Silvio Pedrotti, il mitico direttore del Coro della Sat. Di cui era diventato discepolo e amico. Capace di prendere l’auto, un pomeriggio libero, e farsi Trento e ritorno, pur di passare qualche ora alle prove di quel coro e di carpire qualche segreto di quel rude ma efficacissimo maestro che era Pedrotti. Dal quale ebbe non solo amicizia, ma apprezzamenti sinceri.

Di coro, di canto corale parlava senza stancarsi. Disposto, la sera dopo le prove, a fare le due, le tre, talora l’alba, davanti a un piatto di pesce e a un bicchiere di vino, a disquisire con gli amici coristi, “fatti” quanto lui, su come risolvere una frase, un passaggio, un accordo incompiuto. A sviscerare note, timbri, tenute, semitoni… con un accanimento, un’ostinazione incomprensibile ai “profani”. Ma senza stress, senza tensione. Anzi, con l’occhio acceso e il sorriso disteso quando la parola giusta, cercata negli anfratti di un pensiero fisso, arrivava a un chiarimento, a una soluzione. Pronto però a buttarla, di fronte a un’obiezione o a un’ipotesi più convincente.

Del direttore di coro aveva il gesto trascinante. Non nel senso dell’ampiezza, dell’enfasi. Talora anche questo. Ma nel senso della mossa inattesa, capace far cogliere ai coristi un suo lampo improvviso e di tradurlo in effetto immediato. Dell’improvvisazione aveva il gusto geniale: capitava, talora, che un passaggio irrisolto in prova, anche dopo infiniti, vani esperimenti, trovasse proprio in un concerto ufficiale il giusto equilibrio, l’effetto brillante, in virtù di un gesto inatteso, un’alzata di spalla mai vista, un improbabile quanto curioso passo di danza… Tanto che il coro, vivo strumento fra le sue mani, s’era abituato, in tanti anni, a queste impreviste movenze, a seguirne i repentini scatti, ad entrare con lui in simbiosi perfetta, a un suo minimo cenno del capo o delle dita. Ben lo sapeva il folto stuolo degli appassionati, lo zoccolo duro degl’innumerevoli estimatori. Certi che, per quel suo estro geniale, c’erano sempre da attendere novità, sorprese. Anche nei pezzi più noti e scontati.

Del canto gli piaceva l’interpretazione maschia, robusta, incalzante. Soprattutto, la perfezione degli accordi e dei ritmi. La cercava con caparbietà e impegno totale. Quella stessa caparbietà ed impegno che richiedeva ai coristi. Ai quali non perdonava superficialità o trascuratezza. Proprio perchè egli per primo si dava senza riserva.

Anche in questo era un bambino. In quel suo esaurirsi nel dono di sè senza ritegno. Negli ultimi tempi, ormai provato dai malanni, usciva talora spossato dalle prove, dai concerti. In quei frangenti era ancora più vulnerabile. Incapace, in quei lunghi dopo-prova, di negarsi l’ultima sigaretta, l’ultimo bicchiere. Erano allora gli amici coristi a vegliare su di lui come su un bimbo indifeso. Con affetto e amicizia totali.

* * *

Quando la morte l’ha colto, Giancarlo, nel gioco della vita, aveva dato ormai tutto. Come un bimbo stremato. Da accudire e curare. Per questo lo strappo è stato, per la moglie e le figlie, come per gli amici, così brutale, inatteso… Direi quasi insolente. Come un evento che non poteva, non doveva accadere. Non così . Non a lui. 
I bimbi non possono, non devono morire.

A. M.